29 maggio 1985 – 29 maggio 2020: 35 anni dall’Heysel, il giorno da non dimenticare mai

Non mi sono mai cimentato nella scrittura di qualcosa che non riguardi direttamente l’esperienza personale od un tema arbitrale.
Non ho idea di quel che ne verrà fuori ma proverò ad esprimere, 35 anni dopo, quel che vissi quel giorno.

Avevo 13 anni.
Giocavo a pallacanestro nella Libertas San Bartolomeo ma amavo il calcio.
Mio padre mi ha insegnato fin da piccolissimo l’importanza del rispetto per chiunque ed un sentimento di attaccamento alla nazione a cui appartengo. Motivo per cui, a distanza di tanti decenni, ancora oggi sostengo ogni squadra italiana in ambito internazionale, di qualunque sport si tratti.

Nel maggio 1984, dodicenne ma già appassionato di sport, pregustavo la vittoria della Coppa dei Campioni da parte della Roma.
C’era tutto: le squadre italiane erano le più ricche, gli stranieri migliori li strappavamo a suon di miliardi alla concorrenza, si giocava allo stadio Olimpico davanti a 70mila romanisti.
Come si poteva perdere?
Inizia la partita e segna il Liverpool dopo un quarto d’ora.
Mezz’ora di sofferenza e poi Pruzzo pareggia.
Si arriva ai supplementari ma non succede niente.
Ai rigori la beffa: sbaglia prima Conti e poi Graziani.
Due idoli.
Due campioni del mondo.
Il Liverpool di Grobbelaar, Souness, Dalglish e Rush porta in Inghilterra quella Coppa dei Campioni che mezza città di Roma sognava e che l’altra metà avrebbe vissuto come un incubo interminabile.

L’anno dopo la finale annunciata: non c’era la Roma ma l’Italia era arrivata di nuovo in finale. Era la Juventus di Platini, Boniek e dei tanti reduci dell’Italia Campione del Mondo a Madrid tre anni prima.

Ai tempi non c’era internet, la televisione era ridotta a pochi canali e le trasmissioni locali non contemplavano nulla di quel che vediamo oggi.
Alle 20.00 circa cominciarono ad arrivare le prime immagini dallo Stadio Heysel di Bruxelles, durante il Telegiornale di Rai 1, appuntamento fisso della famiglia subito dopo cena .

Aspettavo l’inizio della partita ma vidi solo tanta confusione: uno stadio ben lontano dall’essere moderno, reti di recinzione abbattute, gente in mezzo al campo, poliziotti a cavallo ma, soprattutto, una curva dello stadio in condizioni anomale.

Inutile ricordare quel che accadde perché lo abbiamo rivissuto centinaia di volte.
Utile, invece, ricordare sempre le vittime di quel tardo pomeriggio belga.
39 vittime, 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi, 1 irlandese:

Leggendo i nomi e cercando tra i ricordi delle vittime, ci si imbatte nella storia di Andrea Casula, un ragazzino di 10 anni deceduto assieme al padre Giovanni.
Sul sito dei familiari delle vittime dell’Heysel c’è un ricordo della madre e moglie di Andrea e Giovanni Casula:
Sa la cosa più strana qual è ? Che non riesco a immaginarmelo adulto, ogni tanto incontro un suo amico d’infanzia che si è sposato e ha figli e allora provo a pensare come sarebbe Andrea oggi. Ma proprio non ci riesco, Andrea sarà sempre un bambino, quello che c’è in quella foto

Interessante il ricordo dell’arbitro di quella gara, lo svizzero André Daina:
(Giocare la partita era la soluzione meno) peggio e ne sono tuttora convinto. Quella sera, trattandosi di una finale, tutte le autorità dell’UEFA erano allo stadio e abbiamo evocato assieme i diversi scenari possibili. Nessuno poteva obbligarmi ad entrare sul campo, ma ero convinto che bisognava farlo per cercare di terminare la serata nel modo più “normale” possibile. Il mio obiettivo era di evitare assolutamente che scoppiassero degli altri scontri dopo un’evacuazione dello stadio senza che la partita fosse stata giocata”.

Non amo i libri sportivi ma c’è stato un volume sull’Heysel che mi ha particolarmente colpito.
Non amo i libri ad argomento sportivo perché spesso si tratta di celebrazioni o, peggio, autocelebrazioni di scarso interesse, pregne di autoreferenziali esaltazioni dell’importanza rivestita.

Mi piace invece la narrativa più emozionale, con la quale non ci si limita alla mera descrizione di eventi più o meno lontani ma si cerca di scavare nelle emozioni vissute durante o dopo un evento che ha segnato la cronaca.

In tal senso ho trovato molto coinvolgente Heysel. Le verità di una strage annunciata, scritto da Francesco Caremani:

E’ veramente agghiacciante leggere quel che passarono i sopravvissuti (perché così devono essere definiti): uomini, donne e bambini che cercavano uno spazio di fuga mentre gruppi di delinquenti ubriachi fradici caricavano armati di lanciarazzi, bastoni, coltelli e pezzi di cemento che avevano staccato dai gradoni di uno stadio che cadeva letteralmente a pezzi.
Leggere oggi le condizioni di quello stadio è quasi surreale.

Ancor più surreale ascoltare con le proprie orecchie i racconti di chi, quella sera, si trovava allo stadio.
Andrea, oggi ultracinquantenne, è un ristoratore comasco oltre che fratello di Paolo, amico da oltre trent’anni.
Era allo stadio quel giorno.
Spesso è capitato di arrivare a sfiorare quell’argomento ma non ne ha mai voluto parlare, come se si trattasse di una ferita che non riesce a rimarginarsi. Il più delle volte diceva “sì, c’ero”, voltava la testa di lato per poi cambiare velocemente argomento. Avrei voluto tante volte approfondire le curiosità personali ma non ho mai voluto forzare ricordi ricacciati nella memoria.

Non ho voluto pubblicare le foto della tragedia durante la tragedia.
Gli incidenti li abbiamo visti tutti più volte.
Le grida disperate le abbiamo fissate nei ricordi, così come sono state rese indimenticabili dalle foto dell’epoca.
Ho voluto ricordare quella notte con l’immagine che, dal mio punto di vista, rimane sconvolgente per il confuso silenzio che trasmette:

Il Settore Z pieno di vestiti, scarpe, zaini, sciarpe, striscioni e cibo abbandonati, laddove pochi minuti prima perdevano la vita tante persone, colpite dalla violenza di centinaia di delinquenti od uccise dalla stessa fuga degli aggrediti.

Sono passati 35 anni ma ancora oggi fatico a capire come sia stato possibile permettere una strage del genere.
Non ci resta che la memoria, quella memoria troppe volte, in questi anni, sfregiata dall’idiozia di taluni inqualificabili personaggi.
Perché chi esulta per la morte di 39 persone non può certo essere definito “tifoso”.
Il tifoso incita la propria squadra.
Chi non è in grado di comprendere la tragedia della morte non può essere considerato come un essere senziente, e ancor meno un tifoso.

E, forse, leggere qualcosa nella vita potrebbe essere d’aiuto.

10 commenti
  1. Maurizio
    Maurizio dice:

    Buingiorno Luca,
    Scusi tanto per l’OT.
    Come mai Luca Banti non si è presentato al raduno di coverciano?
    Magari lei tramite le sue conoscenze ha informazioni in merito.
    Cosa rischia ora?
    Grazie

  2. maurizio
    maurizio dice:

    Buonasera a tutti.
    Avevo 16 anni. Aspettavo quella sera da anni, dalla sconfitta contro l’Amburgo. Io (lo ammetto) sono uno di quelli che non si è reso conto di quello che è successo mentre stava succedendo. Le tv davano notizie catastrofiche, ma io non riuscivo a rendermi conto di quanto fossero davvero catastrofiche.
    Ero nell’età in cui quei morti erano semplicemente un numero in continua evoluzione strillato dalle tv.

    Forse oggi avrei spento la tv.

    Fu giusto giocare? E’ giusto tenersi quel trofeo? Ognuno ha la sua idea, le sue convinzioni. Anche se possono essere l’opposto dalle nostre vanno rispettate.

    Finalmente ho visto che Juve e Toro si sono scambiati post nei giorni delle tragiche ricorrenze. Mentre tutti festeggiavano l’evento, io mi chiedevo: ma non potevano farlo prima? Ma perchè una delegazione della Juve non può partecipare alle commemorazioni di Superga e viceversa? Perchè certi … (non conosco parola abbastanza offensiva) continuano a esporre striscioni che insultano i morti?

    Dicono che questo covid-19 ci renderà migliori. Che questi post siano l’inizio?

  3. giuseppe
    giuseppe dice:

    questo post mi ha commosso signor marelli,davvero un piacere il suo blog
    oggi si urla troppo ma si ascolta poco è la vera tragedia del mondo moderno

  4. Roberta
    Roberta dice:

    Caro Luca possedere le doti di essere umano, empatico e intelligente non fa mai uscire dalla propria zona di comfort: si trovano le parole giuste perché si hanno dentro. Le competenze arbitrali e professionali si acquisiscono, quello che ci rende uomini (nel senso completo del termine) è in noi. Complimenti per la bella persona che si dimostra. Alla prossima.

  5. Enrico
    Enrico dice:

    Per fortuna non ero nel settore Z, ma la prima cosa che mi ha colpito di quel maledetto stadio sono stati i gradoni che si sbriciolavano con due calci, rifornendo di pietre gli hooligans…
    Non aggiungo altro

  6. Massimo Bacchini
    Massimo Bacchini dice:

    ciao Luca, nel 1985 avevo 17 anni (bellissimo periodo…) e avevo due obiettivi: vedere Springsteen a San Siro e assistere alla finale di Coppa dei Campioni; purtroppo mi sono perso Bruce (visto decine e decine di volte in seguito…) e per fortuna non ho trovato i soldi per il viaggio in Belgio… non ho ancora capito, da essere umano, la scelta di giocare (però non la giudico), quello che hai scritto è comunque bellissimo… spero di rileggerti presto, ciao e grazie! Massimo

  7. Manuela
    Manuela dice:

    Cit: “Il tifoso incita la propria squadra.
    Chi non è in grado di comprendere la tragedia della morte non può essere considerato come un essere senziente, e ancor meno un tifoso.”
    In queste due frasi trovo il riassunto di quello che per me è l’essere tifosa, di come mia mamma soprattutto e mio papà mi hanno insegnato a vivere lo sport praticato da altri.
    Sei uscito dalla tua zona di comfort con questo articolo ma le tue parole sono come sempre specchio di ragione e emozione.
    Grazie Luca…

    • Luca Marelli
      Luca Marelli dice:

      Grazie, Manuela.
      Non nego di aver avuto un po’ di timore nella pubblicazione proprio perché, come hai scritto, sono uscito dalla mia zona di comfort.
      Sono felice di aver trasmesso qualcosa.

      Grazie ancora.

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