Il regolamento come inutile orpello?

Fin dal Mondiale in Brasile gli attenti osservatori di “faccende arbitrali” hanno evidenziato in più occasioni la problematica della mancata applicazione del regolamento, sia dal punto di vista tecnico che, soprattutto, da quello disciplinare.

Il Mondiale del 2014 è stato, senza alcun dubbio, il punto più basso che si ricordi alla voce “rendimento degli arbitri“: una serie infinita, imbarazzante e insensata di decisioni inspiegabili, tra ammonizioni risparmiate, espulsioni derubricate, proteste impunite, confusione dilagante.

E ciò è accaduto da subito, fin dalla gara inaugurale tra Brasile e Croazia, decisa da un rigore inesistente assegnato da Nishimura, arbitro giapponese che, alla vigilia, era indicato come il favorito numero 1 per la finale assieme all’uzbeko Irmatov, già reduce da uno splendido mondiale in Sudafrica.

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(L’incredibile rigore assegnato da Nishimura al Brasile nell’esordio contro la Croazia)

Nishimura

(Nishimura)

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(Irmatov)

Un Mondiale trascinatosi, poi, tra incredibili errori, una quantità realmente infinita di sanzioni disciplinari rimaste nel taschino degli arbitri e conclusosi con la finale assegnata a Rizzoli, con grande soddisfazione del movimento italiano ma senza dimenticare che la scelta è stata dettata anche dai disastri altrui (si veda Nishimura, destinato all’atto finale ma suicidatosi nella gara di apertura) e dai veti (in particolare della federazione argentina che non avrebbe gradito la scelta di Irmatov). Giusto celebrare ancor oggi la scelta del bolognese (e, soprattutto, di Faverani e Stefani, due dei migliori assistenti degli ultimi vent’anni) ma sarebbe disonesto ricordare anche i motivi che portarono a questa (legittima) scelta.

Già nell’immediato post Mondiale, il timore venne individuato nel pericolo che quelle indecenti direzioni di gara venissero (per così dire) importate non solo in Europa ma anche in Italia.

Da quei Mondiali sono passati quasi due anni e possiamo, purtroppo, affermare che quel timore è diventato realtà.

Lo abbiamo visto in tante, troppe occasioni per poter classificare il fenomeno come casualità: soprattutto le gare di Champions’ League sono diventate degli incontri nei quali il regolamento non viene interpretato nei limiti della discrezionalità ma spesso calpestato, ignorato, stracciato. Senza voler tornare troppo indietro, è sufficiente rivedere le gare di questi primi turni ad eliminazione diretta per rendersi conto che gran parte degli arbitri, ormai, tendono a scendere in campo con una divisa ed un fischietto non per applicare quelle benedette (e nemmeno troppo complesse) regolette ma per dirigere il traffico.

Vogliate permettermi una veloce classifica delle peggiori direzioni viste in questi primi due turni.

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Lahoz, arbitro spagnolo, impresentabile in Dinamo Kiev – Manchester City, conclusa senza sanzioni disciplinari a fronte di almeno 6 cartellini gialli ed un rosso diretto risparmiati senza alcuna motivazione.

Eriksson

Eriksson, autore di una gara discreta per 70 minuti in Bayern Monaco – Juventus, fisicamente crollato negli ultimi 20 minuti e nei tempi supplementari, aspetto che lo ha portato a sbagliare tutto ciò che fosse possibile sbagliare.

Mazic

Mazic, reduce da un Mondiale pessimo, in PSG – Manchester City non si risparmia nulla: sorvola su un rigore tanto facile quanto evidente, ne assegna un altro inesistente, si dimentica il cartellino in tasca per mezz’ora abbondante.

Brych

Brych, candidato numero 1 per la finale di Champions’ a Milano assieme ad Eriksson: candidatura che (forse) si allontana dopo la direzione inguardabile di Barcellona – Atletico Madrid, in particolare per l’incoerenza disciplinare che costa agli ospiti una gara in inferiorità numerica.

Ora, questo non vuol essere un atto d’accusa nei confronti degli arbitri internazionali ma un punto di partenza per focalizzare l’attenzione su un particolare di non poco rilievo.

Negli ultimi due anni (probabilmente anche per una selezione europea non adeguata, con promozione alle categorie massime di elementi mediocri come Turpin, Hategan, Mazic, Lahoz, Clattemburg) le prestazioni arbitrali sono via via peggiorate, tanto da evidenziarsi il fatto (ormai acclarato) che non applicare il regolamento genera gare negative, che sovente sfuggono di mano ai direttori di gara, e costellate di errori non solo disciplinari ma anche tecnici.

Il motivo?

Sicuramente uno dei motivi principali è da ricercarsi nella mediocrità degli arbitri d’elite, sulla cui scelta le colpe sono da attribuire al designatore della UEFA, evidentemente non avvezzo ad individuare, in mezzo a centinaia di colleghi provenienti da tutta Europa, una trentina di direttori di gara con le qualità necessarie di rappresentare al meglio la categoria.

Il secondo motivo, a mio parere spesso sottovalutato, è da ricercare nel fatto che la mancata applicazione (elementare) del regolamento porta ad assenza di omogeneità: se le ammonizioni vengono risparmiate, è ovvio che l’asticella venga sempre più innalzata riservando il provvedimento disciplinare ad azioni che, fino a pochi anni fa, potevano ben essere punite anche con il cartellino rosso.

Ovviamente l’innalzamento dell’asticella in campo europeo è stata velocemente (e, forse, inconsapevolmente) adottato anche in Italia, campionato in cui esso ha preso una piega leggermente differente.
La grande differenza tra le competizioni europee ed il campionato italiano è sempre stata l’ineguagliabile correttezza dei calciatori nel momento in cui si confrontano con realtà internazionali (siano essi arbitri o club d’oltre confine): raramente si osservano proteste nei confronti degli arbitri e ciò è dovuto a molteplici fattori, dalla severità della UEFA per comportamenti del genere all’esposizione mediatica dei club.

In Italia, al contrario, le proteste sono sempre esistite.
Innalzandosi il livello di tolleranza tecnica (alzando l’asticella sopra citata per comminare ammonizioni ed espulsioni), la conseguenza è che anche le proteste sono state sempre più “accettate“.
Si è passati dalla “punizione” all’”amministrazione”, ciò che ha portato in tante, troppe occasioni dalla tolleranza zero (annunciata ad inizio stagione)alla tolleranza totale.
Pertanto i calciatori (magari non propriamente simpatici ma certamente dotati di un cervello, spesso funzionante) hanno assunto l’abitudine di protestare per qualunque motivo, anche in presenza di episodi facili, chiari, plateali, ben consci del fatto che gli arbitri non avrebbero mai (o quasi) assunto decisioni disciplinari nei loro confronti.
Le polemiche successive al ben noto “caso Higuain” sono esemplari: di Milan – Juventus rimarrà impressa l’assoluta assenza di contestazioni nei confronti di Orsato, in particolare da parte di Bonucci che, ben sapendo di essere al centro dell’attenzione, è arrivato a “masticarsi” una mano pur di non lasciarsi scappare nemmeno una parola dopo un contrasto dubbio fischiato a sfavore.
Altrettanto significativo quanto accaduto a Napoli: al di là del motivo scatenante (difficile spiegare per quale motivo Mazzoleni non abbia visto la trattenuta o l’abbia ritenuta regolare…) le proteste di Albiol avrebbero portato all’espulsione sempre, se solo fosse stato applicato il regolamento.
In sintesi gli arbitri stessi sono messi in difficoltà dalla propria tolleranza tanto che, di fronte a comportamenti ineducati continuati (svestizione della maglia, protesta, doppio colpetto ironico sulla spalla del direttore di gara, applauso all’assistente, altre proteste), si è preferito soprassedere onde evitare ulteriori polemiche.
Ma l’aspetto più paradossale, in questa strana circostanza, è che si sia preferito evitare l’espulsione (dovuta) di Albiol al fine di non penalizzare una squadra che la settimana prima, ad Udine… NON era stata penalizzata, così come non è stata penalizzata dalla squalifica (adeguata) di Higuain.

Si tratta, dunque, di un cortocircuito la cui responsabilità principale è da ascrivere proprio alla categoria arbitrale, intendendo come tale tutto il movimento che ha sdoganato un certo tipo di amministrazione in campo internazionale per farlo, in seguito, approdare anche nel campionato nazionale.

E’ ormai oggettivo che questa strada non solo non corrisponde ai principi del gioco ma, soprattutto, sta producendo danni di immagine e di regolarità delle competizioni. Il concetto secondo cui si debba tutelare il gioco evitando sanzioni che potrebbero disequilibrare le gare è quanto di più lontano esista dalla parola “sport”, poiché anche le sanzioni sono parte integrante del gioco. Se, nei lontanissimi anni ’60, sono stati introdotti i cartellini, un motivo ci sarà, non sono stati certo pensati per consentire una nota di colore agli arbitri allora vestiti solo di nero

La strada da percorrere è senza alcun dubbio quella di compiere un passo indietro e tornare ai principi che hanno imposto la presenza degli arbitri in campo, cioè di un uomo chiamato a far rispettare le 17 regole del gioco.

La scelta migliore è senza dubbio quella di tornare ad arbitrare e dismettere una volta per tutte i panni dell’amministratore che ha provocato e sta provocando uno svilimento preoccupante della qualità media dei direttori di gara, sempre più visti come incassatori piuttosto che come garanti del gioco.

In caso contrario, prepariamoci ad un campionato Europeo che rischia di essere ricordato per lo stesso motivo di Brasile 2014…