La mia Can e Calciopoli

E’ l’11 maggio 2006, alle 14 mi metto in macchina per partire alla volta di Firenze. Il tempo è bello, il sole splende, la strada è lunga e sono felice dopo aver diretto la seconda gara di A a conclusione del mio primo anno di CAN A/B.
Gara diretta ad Ascoli dove, 18 mesi dopo, uscirò con una gamba fratturata a causa di uno scontro fortuito con il calciatore Job. Corsi e ricorsi.
Arrivo a Coverciano dove è in programma l’ultimo raduno della stagione.
Sembrerà paradossale ma, partendo da casa, non avevo idea che mi stessi recando nel centro del tornado per vivere uno dei weekend più assurdi e dolorosi della mia vita sportiva.
No, non ci saranno immagini riempitive per descrivere quelle tre giornate vissute in clima irreale, tanto inatteso (da me) quanto annunciato (da altri).
Arrivato a Coverciano incrocio sguardi stralunati e strani sorrisi. Non riesco a spiegarmi che cosa stia accadendo ma si respira un’aria molto pesante.
Entro nella hall e saluto l’adorata Giulia (adorata da tutti, non solo da me, per il suo contagioso sorriso), salgo nella mia stanza e comincio la mia solita routine: un libro, qualche sigaretta, la telefonata alla fidanzata del tempo (sì, mi ricordo perfettamente chi fosse, è e rimane la più importante della mia vita), alla mamma, ad un paio di amici selezionati.
Alle 18 scendo nuovamente nella hall ed incontro tanti colleghi che, diversamente dal solito, non sono tutti assieme a chiacchierare ed a ridere di stupidate assortite. I raduni bisettimanali non sono stati, non sono e non saranno mai simposi accademici ma incontri per socializzare, analizzare, confrontarsi.
Quella sera, invece, c’è qualcosa che non va.
Andiamo a cena.
Di solito eravamo tenuti ad arrivare, col generale Mattei, prima di cena per consumare il pasto tutti assieme. Quella sera regnava la totale anarchia: colleghi che non erano ancora arrivati, altri che non si siedono, alcuni che si alzano al suono del cellulare, il tutto in un silenzio irreale là dove, solitamente, la sala si distingue per una cagnara indistinta in cui si mescolano dialetti di mille regioni d’Italia.
Dopo cena usciamo velocemente dalla sala. Ci si riunisce in gruppetti sparsi, mi siedo un po’ spaesato sui gradini di fronte alla hall. Accendo l’ennesima sigaretta (ai tempi era la normalità, per me) ed ascolto i discorsi dei colleghi che discutono di certe voci che si rincorrono da settimane e che sono state anticipate il giorno prima da “L’Espresso”: ci sarebbero degli arbitri indagati per quella vicenda già battezzata con il nomignolo di “Calciopoli”, nomignolo che riporta sinistramente a “tangentopoli”.
Ascolto senza capire un granché. Il motivo può sembrare strano ma, nella realtà, vivevo in un mondo tutto mio in quei giorni: la fidanzata più o meno nuova, la seconda gara in serie A in una stagione che migliore non avrebbe potuto essere, il giorno 300 circa di un sogno chiamato CAN.
Verso le 21.30, mentre fumavo la sigaretta numero “ennesima” della serata, mi avvicina un arbitro molto noto di quel tempo che, senza lasciarmi nemmeno il tempo di salutare mi dice: “Mare’, tu sei uno di quelli che pensano che sono fottuto? Da qui non mi mandano via nemmeno con le cannonate, questa è casa mia e non mi faccio fregare in questo modo“.
No, il nome non lo dirò mai ma queste parole non le ho ascoltate da solo ma assieme ad altri arbitri che si trovavano con me lì ed in quel momento.
E’ stato, forse, l’istante in cui ho cominciato a comprendere la gravità di quanto stesse accadendo.
E no, non ho intenzione di nascondere il fatto che alcuni colleghi fossero felici delle indiscrezioni di stampa, che ridessero a battutacce sulle manette in arrivo.
A mezzanotte, dopo aver passato ore ad ascoltare storie incredibili su quanto emerso nei giorni precedenti, vado a dormire pensando solo a preparare sulla sedia il materiale per il solito allenamento delle 9.30 sul campo in erba di Coverciano.
Alle 7, invece, siamo già tutti svegli.
Pochi minuti prima sono arrivate le volanti della Polizia, lampeggianti accesi, passando per il cancello di ingresso di Coverciano già pieno di giornalisti in cerca di notizie. Come possano aver saputo dell’arrivo delle forze dell’ordine all’alba è un mistero (buffo) tutto italiano.
Ma non certo una novità.
Alle 7.30 un vice commissario della CAN passa di stanza in stanza avvertendoci di vestirsi in fretta, di scendere nella sala riunioni principale del Centro Tecnico con la propria carta d’identità per il riconoscimento personale e per il ritiro di atti giudiziari.
Probabilmente è solo un caso che l’infarto sia arrivato nove anni dopo e non quella mattina alle 7.30.
Ci guardiamo negli occhi, che adesso sono tutti stralunati. Si legge stupore, dolore.
E paura.
Ho paura anche io.
Non ho la minima idea di cosa stia succedendo ma ho una paura fottuta di finire in mezzo ad indagini penali, in mezzo a nomi che, fino a quel momento, avevo solo visto sui giornali, in televisione o, per caso, durante gli incontri arbitri/dirigenti.
Prendo la mia carta d’identità, mi avvio verso la sala riunioni da solo, incontro un agente in divisa che mi ferma e mi chiede a bruciapelo: “lei chi è?”.
Mi si gela, letteralmente, il sangue.
“Buongiorno, sono Luca Marelli di Como”.
“Un attimo”.
Prende una specie di blocchetto per gli appunti, scorre una lista.
Mi guarda.
“No, lei può rimanere in stanza, non è nella lista degli indagati”
La mia reazione è stata… nessuna reazione. Sono rimasto imbambolato, fermo in mezzo al corridoio mentre l’uomo in divisa si allontanava e fermava un collega. Stessa procedura, stessa domanda, stessa attesa ma finale diverso: “vada in sala riunione, la stanno attendendo”.
Lo guardo. Piange. Chiede all’agente “perchè? Cosa ho fatto?”.
L’agente gli appoggia una mano sulla spalla: “vada in aula, le spiegheranno tutto”. Pochi minuti dopo gli consegneranno un avviso di garanzia, iscritto nel registro degli indagati per una gara che i magistrati ritengono “aggiustata”. Verrà sospeso la settimana successiva. Verrà processato, spenderà decine di migliaia di euro, non scenderà mai più in campo.
Verrà assolto in via definitiva 8 anni dopo.
Vago tra i corridoi, ho lo stomaco completamente chiuso ma decido di andare in sala pranzo per la colazione.
Incontro una sola persona, seduta con lo sguardo perso nel vuoto.
E’ Maurizio Mattei. Ha gli occhi gonfi.
Abbiamo da anni un rapporto di amicizia che va oltre l’aspetto tecnico. Non si contano le cazziate che mi ha tirato, l’ultima pochi giorni prima perchè, negli ultimi 10 minuti ad Ascoli, ero cotto come una birolla.
Non tenta nemmeno di nascondere l’amarezza, il dolore, la pena umana che prova in quel momento. Non dice una parola, mi fa solo segno di sedermi accanto a lui. Dopo due minuti, senza aver detto una sillaba, si alza.
Si ferma, mi guarda e mi dice: “Figliolo, cazzo fai ancora qui? Inizia l’allenamento!“. Scoppia a piangere. Non sarà l’ultima volta in quegli irreali tre giorni di Coverciano.
Andiamo al campo. Iniziamo l’allenamento più assurdo che possa ricordare. Arbitri che corrono con il cellulare in tasca, non so esattamente per quale motivo, non mi interessava allora e non mi interessa oggi.
Attaccati alle reti di recinzione ci sono decine di persone che ci urlano di tutto, ci insultano con ogni epiteto immaginabile. Sommergono di letame madri, mogli, figli, parenti fino al quarto grado collaterale, senza distinzione. Ci sputano addosso ed è veramente difficile non reagire. Dopo il primo giro decidiamo di trasferirci ad un campo interno, lontano dagli occhi e, soprattutto, lontani dalle bocche di quelle persone che, oggi, dovrebbero chiedere scusa per aver infamato arbitri che sono stati giudicati non colpevoli.
Finiamo l’allenamento: doccia e telefonata veloce a casa per rassicurare mamma, papà ed affetti.
Andiamo in aula. Le forze dell’ordine sono ancora in giro ma hanno finito di distribuire gli avvisi di garanzia.
Mattei annuncia le designazioni per l’ultima giornata di campionato. Designazioni stravolte, gli arbitri destinatari delle informative di garanzia vengono tenuti a riposo, per loro il campionato si conclude con un paio di giorni di anticipo. Per alcuni si conclude in quel preciso istante la carriera ma non lo sanno ancora…
Finite le comunicazioni relative alle gare della domenica, Mattei scoppia a piangere. Si accascia letteralmente sulla scrivania e non dirà più nulla. La riunione tecnica si conclude nel giro di venti minuti.
Pranziamo ma nessuno ha fame, non si capisce più nulla. Usciamo e ci raduniamo in gruppi sparsi.
Vedo un mio coetaneo che piange come un bambino, giura su sua figlia che non c’entra nulla. Pochi mesi dopo verrà scagionato da ogni accusa, sia sportiva che penale.
Un altro reagisce in modo differente: “siamo alla follia, non ho idea di cosa stiano parlando”.
Nel primo processo penale verrà assolto, sentenza confermata in appello ed in Cassazione. Non ha commesso il fatto.
Troppo spesso ho letto ricostruzioni fantasiose di arbitri corrotti, prezzolati.
Mai, in questi anni, ho sentito o letto anche solo una riga di scuse per questi ragazzi che, allora, vennero sommersi di merda mediatica, messi alla gogna, insultati ovunque e da chiunque. 
Alcuni di loro sono stati, di fatto, buttati fuori dall’AIA prima ancora delle sentenze definitive. Ed anche a loro nessuno ha mai chiesto scusa.
Alcuni di loro sono tutt’oggi miei amici.
Lo erano prima dei processi, durante i processi, dopo i processi.
E c’è gente che, ancora oggi, racconta balle inverosimili su quelle giornate…
3 commenti
  1. Gabry
    Gabry dice:

    Uomini-arbitro messi alla gogna prima ancora di essere giudicati: ma tanto si sa che è così! Dover rinunciare a qualcosa per cui si è lottato una vita, solo per dei sospetti. Le tue ultime 6 righe sono la fotografia di centinai di casi che infiammano le cronache, beh, tu sei un avvocato sai come funziona!!!! ….purtroppo!

    • H
      H dice:

      Beh la Suprema Corte non è che abbia detto che sia stata una montatura. Gli arbitri-quelli onesti- sono stati danneggiati da quella vicenda. Piuttosto era evidente che, per dovere arbitrare si doveva compiacere a Moggi. Più uno stato di necessità che non una vera collusione con il sistema. Mi spiace sinceramente per gli arbitri. Calamandrei diceva che l’onta peggiore è il processo. Ma non si può far finta che nulla sia successo

    • Clesippo Geganio
      Clesippo Geganio dice:

      giriamo giriamo e sempre allo stesso posto stiamo!
      Gli investimenti economici sempre più massicci nel mondo del Calcio producono ogni sorta di nefandezza che l’essere umano conosca.
      Ripeto il concetto, il Calcio non è un settore isolato e distaccato dalla realtà sociale, politica ed economica, ne è parte integrante, quindi e pregno di pregi sopratutto difetti, gli stessi che devastano la nostra società civile, in sintesi, i soldi regalati uccidono la coscienza di chi li riceve!!!!!!
      Se non vi è chiaro il concetto è inutile spiegare quel che Luca Marelli ha descritto minuziosamente nel post.

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