Come inizia una passione…

Settembre 1991.

Papà e mamma, dopo anni di sacrifici, riuscirono ad acquistare una casa grande, nella quale sia io che mia sorella avremmo potuto avere spazi più ampi ove crescere, sebbene non fossimo più ragazzini.
Stavamo bene nella casa precedente, piccola ma accogliente, circondati da tante famiglie modeste ma dignitose. Una di quelle case popolari abitate da decine di operai, autisti, impiegati, manovali. Quei famosi casermoni costruiti tutti uguali, con passerelle che collegavano le varie unità.
Il vero problema in quegli anni non era tanto la misura di umanità presente (oltre 500 persone in un unico condominio) ma l’infiltrazione di taluni “esterni” non certo interessati alla conoscenza di chi abitava quegli immobili ma alla ricerca di giovane clientela per i propri traffici.
Nel giro di poche settimane i miei genitori, ormai in grado di potersi permettere un trasferimento grazie al loro lavoro, decisero di spostarsi soprattutto per evitare che io e mia sorella potessimo rischiare di finire in strane compagnie.

Avevo già 19 anni ed ancora non avevo la minima idea di cosa avrei fatto della mia vita, soprattutto con una carriera liceale tutt’altro che brillante.

Nel mezzo di un noioso sabato pomeriggio il campanello di casa suonò.
Andai ad aprire la porta e mi trovai di fronte lo zio Domenico ed il cugino (acquisito) Cosimo.
Non tutti sono a conoscenza del fatto che, da parte di mamma, sono mezzo barese e, come in tutte le famiglie meridionali, non è necessario annunciare con due settimane di anticipo e con lettera raccomandata A/R una visita ai parenti.

Motivo per cui quella visita venne accolta non come una sorpresa ma come una gradita normalità.  Tra mille chiacchiere la discussione arrivò (chissà come) al mio futuro nello sport. Allora giocavo a basket in una piccola società del comasco (la Libertas San Bartolomeo), nel campionato juniores e con risultati non propriamente eccezionali. Mi divertivo ma la passione per il calcio non si era mai sopita, sebbene la mia carriera pallonara si fosse divisa tra le giovanili dell’Alebbio ed una comparsata nell’under pura dell’Albatese.

Proprio in quel pomeriggio scoprii che mio zio era arbitro di calcio da decenni, prima nell’AIA e, in quel momento, nel CSI di Como. Passione che aveva trasmesso anche al genero Cosimo, marito di sua figlia.
Entrambi mi descrissero con un tale trasporto l’attività che rimasi quasi sconvolto dal fatto che qualcuno potesse avere una passione per quel ruolo da sfigati.

Non lo nego: mentre mi parlavano pensavo tra me e me: “ma questi son scemi, che gusto c’è a fare l’arbitro? Che soddisfazione possono mai trovare a farsi insultare da un branco di scarponi?“.

Dopo le solite due ore di visita a sorpresa, zio e cugino si stavano accomiatando.

“Luca, perché non provi? Al limite, se non dovesse piacerti, lasci perdere”.
“Boh, non lo so, vediamo” (in realtà non avevo la minima intenzione di starlo ad ascoltare).
“Ma sì, sei giovane, hai un bel fisico da atleta, sei sveglio, il corso inizia lunedì. Non dovrai nemmeno spendere nulla, ti darà tutto il CSI”
“Dai, Luca (era la voce di Cosimo), anche io ero molto scettico, non praticavo uno sport da tempo eppure mi sto divertendo”
“Dai, va bene, ci penso e vi faccio sapere” (basta che la smettete di rompere, tanto non ci vengo)
“Buona domenica”
“Ciao zio, ciao Cosimo”.

[Che palle, è proprio vero che i parenti consigliano le attività più assurde, figurati se io vado in campo da arbitro a farmi insultare].

Dopo cinque minuti avevo già dimenticato quella conversazione, tutte le mie aspettative erano nuovamente rivolte alle priorità della vita: sabato sera, rientro a notte fonda, qualche B52 di troppo (erano gli anni dei cocktail spaccafegato con il solito gruppo di 4 disperati prima della sudata epocale in una qualche discoteca della zona) e la domenica passata a smaltire le “fatiche” del sabato sera.

Domenica mattina.
Mattina… oddio… diciamo domenica nelle vicinanze del pranzo.
Mi alzo con gran fatica, digerendo l’ultimo intruglio sbevazzato in qualche luogo difficilmente individuabile nel libro dei ricordi recenti.
Scendo, saluto mamma e papà, mi fiondo sotto la doccia per svegliarmi un po’.
Pranzo veloce e comincia l’attesa.

Di cosa?
Ma ovviamente del pomeriggio sportivo!
Appuntamenti:
Tutto il calcio minuto per minuto dalle 16.00 alle 18.00 circa (eh già, cari miei: ai tempi le partite erano tutte di domenica pomeriggio, iniziavano ad orari differenti [e ciò dipendeva dalla stagione: alle 16 in estate, alle 14.30 in inverno] e le immagini si vedevano solo dopo la conclusione delle gare);
Tuttobasket, con diretta del secondo tempo da 3 campi di A/1 ed un campo di A/2, trasmissione condotta da Massimo Carboni, dalle 18.20 alle 19.30 circa;
– radio accesa e tv senza volume per vedere le prime immagini delle partite, annunciate in rapida successione dal conduttore di 90° minuto, dalle 18.10 circa alle 19

90esimo minuto

Il mitico Paolo Valenti non conduceva più 90° minuto, trasmissione che aveva lasciato poco prima della sua scomparsa avvenuta il 15 novembre 1990.

E proprio nel momento in cui il sostituto di Paolo Valenti, Fabrizio Maffei, cedeva la linea ad uno degli inviati della domenica, accadde qualcosa.
Invece di guardare le gesta di Van Basten, Baggio, Careca o Batistuta, mi trovai a seguire la “corsa” di quell’omino in nero, tutto solo in mezzo al campo, in una divisa stretta sulle cosce e sformata nella parte superiore, con un fischietto in bocca e strane movenze quando interrompeva il gioco.

Un uomo che, prima, non consideravo nemmeno: non conoscevo un singolo nome di quegli strani personaggi.

“Ma’, cosa ha detto lo zio? Quando inizia il corso per fare quell’attività?”
“Domani, Luca. Ti ha detto che puoi andare in sede domani sera per iscriverti”
“Che dici, ma’? Mi iscrivo?”
“Ormai sei grandicello per chiedermi cosa fare”.

Tipica donna barese, poche parole ma chiare: “Giovanotto, hai 19 anni, scegli quel che vuoi“.

Non so ancora oggi perché ma quel pomeriggio decisi di andare nella sede del CSI per capire cosa fosse quell’attività.
Ebbene sì, la mia vita arbitrale nacque per caso in un giorno di settembre del 1991, nella sede del Centro Sportivo Italiano di Como.

Il lunedì sera mi recai nella sede del CSI di Como, accompagnato da mio zio che avevo avvertito quel pomeriggio verso le 18.30 (naturalmente chiamandolo al telefono fisso dopo il suo rientro dal lavoro, i cellulari erano oggetti di lusso che potevano permettersi giocatori o ricconi, arnesi che erano stati commercializzati l’anno prima, in occasione dei mondiali e solo nelle città sede delle gare).
Entrai in una sede piena di fumo (sì, ai tempi si poteva fumare nei luoghi pubblici), venni presentato a tale Antonio Bertoncin, segretario del CSI che, sigaretta in bocca, prese nota dei miei dati anagrafici per iscrivermi al corso.

“Bene, mi servono due fototessera ed il certificato di buona salute nel caso in cui passassi l’esame dopo il corso”
[“L’esame? – pensai – Mo’ devo passare pure un esame per svolgere ‘sta attività? Con tutti ‘sti anziani in giro devo pure passare un corso?]
“Va bene, quando dura il corso?” [‘e che palle, pure un corso…’]
“Più o meno un mese e mezzo, due lezioni a settimana di circa un’ora l’una”
“Perfetto, quando inizia?”
“Lunedì prossimo alle 20.30”
“Perfetto” [‘Stai tranquillo che non mi vedete manco in fotografia, altro che esame e certificato medico’].

Il lunedì successivo ero in sede alle 20.
Mezz’ora a girovagare per la sede (non conoscevo un’anima) e poi l’inizio.
Mi piazzarono in mano un volume di 150 pagine (‘non dovrò pure studiare, vero?‘) pieno di figure, spiegazioni, domande. Il titolo di quel libro era “Regolamento del giuoco del calcio”, edizione 1990.
La prima lezione cominciò con una tirata infinita sui doveri dell’arbitro, sulla necessità di arrivare al campo almeno un’ora prima (‘e per far che? Manca solo di dover tracciare le linee, mica voglio fare il segnalinee…‘) e bla bla bla.
Poi si entrò nel vivo delle lezioni.
“Regola 1, Il terreno di gioco”.

Un mese e mezzo dopo arrivò il momento dell’esame.
Il CSI è un mondo strano ma, come scoprirò più tardi, non differente dall’AIA: le persone si incontrano in sede, si raccontano episodi senza senso accaduti nel weekend precedente, inventano elogi spassionati di famosi dirigenti locali che nemmeno i loro parenti conoscono, si incazzano per decisioni assunte in serie A mentre “io avrei fatto così perché mi è capitato proprio ieri un episodio identico a Beregazzo con Figliaro nei Dilettanti a 7“.

Per quanto le prospettive siano differenti, però, AIA e CSI hanno un aspetto in comune: la passione. Gli arbitri in attività parlano in continuazione di gare arbitrate, si confrontano, chiedono consigli, si rivolgono ai più anziani per ottenere “dritte” utili in campo da chi ha più esperienza diretta.

In quei primi mesi al CSI conobbi persone che, ancor oggi, ricordo come punti di riferimento: Luigi Nessi, ora consigliere comunale, sempre attento alle esigenze del territorio e con una passione enorme per lo sport locale; Scotti, il designatore; e poi gli arbitri, dal mitico Salatenna (rimasto in campo fino ad oltre 70 anni) a Trombetta, Iraci, Redaelli, Spadafora e tanti altri.

Due mesi dopo la stravagante idea di mio zio, mi ritrovai con la prima designazione in mano: Allievi a 7, Oratorio San Giuseppe di via Valleggio, un terrificante campo in terra con vista sulla strada provinciale a sud, l’oratorio ad est, la caserma dei Vigili del Fuoco ad ovest ed un boschetto a nord.
Inizio della gara prevista per le ore 17, in programma il big match tra la prima e l’ultima in classifica.
Entrai negli spogliatoi semiterrorizzato, come una specie di automa mi preparai: scarpe da calcio con tacchetti in ferro battuto (e su un campo sterrato mi trovai benissimo…), divisa fornita dal CSI a maniche lunghe, modello “quattro stagioni” (tradotto: una specie di “pile” adatto per sudare anche a 3000 metri di quota in pieno gennaio), fischietto in acciaio (per intenderci quelli con la pallina e che funzionava dopo averlo lasciato in acqua per mezz’ora almeno), monetina da 100 lire e cartellini.

Fischio in perfetto orario, spalti gremiti (un paio di dirigenti, mio zio in veste di accompagnatore ed il parroco pronto a tirar ceffoni alla prima bestemmia), sudorazione abbondante (provate voi a rimanere per 10 minuti con l’attrezzatura da palombaro e con 20 gradi…), colore del volto tendente al grigio, maglia fuori dai pantaloncini.

Nel primo tempo fischio tutto.
O, meglio, fischio tutto quel che non va fischiato: rimesse laterali, calci d’angolo, calci di rinvio. In compenso applico la norma del vantaggio in perfetto stile inglese: non fischio niente, più o meno dopo 5 minuti la gara è già una rissa. Fortunatamente il nervosismo si stempera dopo 20 minuti, nel momento in cui la squadra di casa (prima in classifica) segna la rete del 7-0.

Tra primo e secondo tempo mio zio, con tatto pugliese, entrò nello spogliatoio dicendomi: “ma hai mai visto una partita di calcio? E infilati la maglia nei pantaloncini, sembri un mendicante!”.
Credo che sia stato quello il momento in cui ho capito che il calcio è uno sport, arbitrare un’arte: non basta conoscere tutti i giocatori di serie A, aver visto duemila partite e sentito centinaia di puntate di “Tutto il calcio minuto per minuto” per essere in grado di scendere in campo e dirigere una gara.

A settembre di quel 1991 non sapevo nemmeno cosa significasse arbitrare.
A fine ottobre la passione, dopo la prima partita, mi aveva già totalmente avvolto, nonostante non avessi la minima idea di come ci si dovesse comportare in campo.

Pochi anni dopo mio cugino Cosimo se ne andò a 34 anni, ucciso da una malattia bastarda che non gli ha lasciato scampo.
A lui ed a mio zio Domenico, oggi 78enne, dedico questo breve pensiero perché è grazie a loro che ho potuto conoscere questo strano mondo, con tutte le sue contraddizioni, connotato da solidarietà, volontariato, colpi bassi, marchette, grandi persone e figuri impresentabili.
Un mondo, soprattutto, colmo di passione che pochi possono comprendere se non coloro che hanno provato a scendere in campo con un ruolo differente dagli altri 22 (o 14, nel mio caso).

Ho passato due anni e mezzo al CSI di Como.
Solo il mese di aprile 1994, a 22 anni suonati, accompagnerà l’esordio nell’AIA, abbracciata dopo aver abbandonato il CSI perché i responsabili non mi volevano designare negli Open a 11: “non hai le capacità, almeno per ora, di gestire una gara di adulti“, dicevano.

Ma questa è un’altra storia che, magari, racconterò…

5 commenti
  1. Nunzio
    Nunzio dice:

    Grande Luca molto spesso le cose che si fanno con passione ci vengono proposte in un modo in’aspettato che poi ci coinvolgono per tutta la vita .

  2. Lorenzo
    Lorenzo dice:

    Se sei approdato all’AIA a 22 anni, pur con l’esperienza del CSI, e sei arrivato alla massima serie in 11 anni sei proprio un fenomeno!

  3. Dimitri
    Dimitri dice:

    Solito articolo ineccepibile. Un grosso in bocca al lupo X quello che mi hai detto stamani. Ciao vecio

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